Il verbo “ricordare” deriva dal latino recordare, che significa “rinnovare nel cuore”. Questa etimologia riflette la concezione della memoria di Aristotele, che collocava la mente nel cuore e non nel cervello, ma al contempo evidenzia l’importanza delle emozioni per i processi mnemonici, che non consistono nella semplice registrazione e successiva rievocazione di dati, ma presuppongono una costruzione di contenuti, mediata anche dalle emozioni (Bower, 1981).
Lo sforzo di costruire i contenuti e di preservarli a lungo è giustificato dall’utilità degli stessi, perché servono a prendere decisioni, risolvere problemi, comprendere il linguaggio. I contenuti e le procedure apprese che non servono più, invece, vengono perse, perché la traccia neuronale connessa a ciascun contenuto, se non viene costantemente rinnovata dall’esperienza e dalla stimolazione, si deteriora (Baddeley, 1993).
Accanto a questo tipo di ricordi, possono registrarsi anche alcuni ricordi collegati a eventi dolorosi e impattanti che vengono reiterati in maniera disfunzionale, generando forte sofferenza psicofisica in chi li esperisce.
In questo articolo esploreremo alcuni meccanismi della memoria, in particolare sui ricordi che diventano ferite traumatiche e che in alcuni casi degenerano in Disturbo Post Traumatico Da Stress, e ci soffermeremo sulle terapie a orientamento narrativo e a tecnica del romanzo del trauma, che può essere utilizzata da un clinico per aiutare un paziente a elaborare vissuti traumatici.
La memorizzazione è un’operazione che scaturisce dall’interazione di numerosi fattori, tra cui quelli percettivi, linguistici ed emotivi e si articola in tre fasi: codifica, ritenzione e recupero (Atkinson & Shiffrin, 1971).
La codifica è la fase di immagazzinamento del contenuto, il quale non corrisponde esattamente all’oggetto, all’evento o all’informazione reale, ma implica una rielaborazione, che ne seleziona gli aspetti significativi per la persona. La fase di ritenzione è l’intervallo in cui quel contenuto viene conservato prima della fase di recupero, corrispondente al momento in cui il contenuto archiviato viene recuperato per essere esposto verbalmente, se di tipo narrativo, oppure applicato, se di tipo procedurale (Lezak, 2000).
La memoria autobiografica è una fattispecie di memoria riferita ad eventi, esperienze e conoscenze derivanti dalla propria storia e riguarda il modo in cui la persona codifica, conserva e rievoca le sue esperienze di vita.
Teorie e ricerche recenti hanno evidenziato come il proprio passato sia, in grande misura, una costruzione, piuttosto che una registrazione e rievocazione fedele di fatti avvenuti e vissuti (Tulving, 2002).
“Dov’eri quando hai saputo dell’attentato alle Torri Gemelle?”. Il fatto che tutti, più o meno, ricordiamo dove eravamo, come abbiamo saputo della notizia, è spiegato dal fenomeno delle flashbulb memories, un aspetto specifico della memoria autobiografica che, nella nostra lingua, conosciamo come “memorie lampo”.
Flashbulb memories è un’espressione coniata nel 1977 dagli allora ricercatori dell’Università di Harvard Brown e Kulik. L’espressione è stata desunta dalla fotografia, dove il termine flashbulb indica l’apparecchio o la lampada che fa scattare il flash. Quest’ultimo serve a far entrare all’interno dell’obiettivo una grande quantità di luce, imprimendo sulla pellicola la scena fotografata con tutti i dettagli.
Il termine, quindi, suggerisce una scena vivida, ricca di dettagli, luminosa, relativa ad un episodio emotivamente significativo, per esempio un evento pubblico traumatico oppure un evento privato negativo o positivo. Riguardo all’episodio delle Torri Gemelle, le persone ricordano molti dettagli, come il momento in cui hanno appreso la notizia, dove si trovavano e con chi, cosa stavano facendo, cosa hanno provato quando l’hanno saputo.
Basta solo un’esposizione alla notizia e le persone riescono ad apprenderla e memorizzarla, conservandola nella mente per anni. Il fatto di discuterne spesso, di rimuginare, di riflettere sulla notizia, sulle sue conseguenze e di assistere a dibattiti che la approfondiscono, contribuisce a mantenere vivo il ricordo, facendo riverberare i circuiti neuronali associati ad essa. I neuroni deputati a quel ricordo continuano quindi a essere attivi, impedendo il degradarsi della traccia mnestica (Finkenauer et al., 1998). Le neuroscienze definiscono plasticità neurale la capacità del cervello di creare connessioni tra i neuroni attraverso l’esperienza.
I traumi psicologici, che rientrano tra le memorie autobiografiche, sono le principali ferite emotive che possono colpire un individuo durante l'infanzia, e che poi potrebbero gravare nell'età adulta.
«Ciò che ricordiamo dall'infanzia lo ricordiamo per sempre - fantasmi permanenti, timbrati, inchiostrati, stampati, eternamente in vista», afferma Cynthia Ozick.
L'infanzia è una fase essenziale della nostra vita, anche perché si riflette sul nostro modo di essere adulti. Tutto ciò che ci succede in questo periodo, infatti, può avere conseguenze sul nostro futuro, soprattutto le esperienze più negative. Da una parte, è compito dei genitori proteggere in maniera appropriata i propri bambini. Dall'altra parte, come adulti, è necessario affrontare questi temi rimasti irrisolti durante l'infanzia per poter andare avanti senza troppe conseguenze (White et al., 2014).
La parola “trauma” deriva dal greco e significa “ferita”. Che si tratti di un abbandono, un atto violento, un lutto o un’aggressione, chiunque viva un trauma sperimenta una profonda lacerazione tra prima e dopo. Prima si viveva in un mondo giusto e pieno di significato. Dopo, di colpo, il mondo non è più sicuro, nulla è più giusto ed equo (Wilson et al., 2018).
Nonostante l’essere umano sia naturalmente “attrezzato” a superare eventi traumatici, capita talvolta che chi ha vissuto un’esperienza di questo tipo non riesca a superarla spontaneamente e sviluppi un Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD, Post Traumatic Stress Disorder). Si tratta di un fenomeno che, purtroppo, si sta verificando sempre più frequentemente e sta interessando una fascia di popolazione estremamente ampia, in questa epoca di attentati terroristici, guerre, calamità naturali ed emergenze sanitarie, come nel caso del terremoto che ha devastato il Centro Italia negli anni scorsi o, naturalmente, dell’emergenza Covid-19.
In base alla definizione presente nel DSM-5-TR, chi soffre di Disturbo Post Traumatico da Stress è continuamente tormentato dal ricordo del trauma, da un passato che continua a inondare e sommergere il presente con paura, dolore e rabbia, sotto forma di incubi, ricordi, immagini, suoni, odori, flashback, impedendo alla persona di proseguire il suo cammino presente verso il futuro.
Di fronte a situazioni traumatiche, la persona cerca di difendersi con differenti modalità, definite strategie di coping o coping reactions, dal verbo inglese to cope, traducibile con termini come “affrontare”, “venire a patti” (Taylor & Stanton, 2007).
In primo luogo, nell’illusione di poter in qualche modo dimenticare il trauma vissuto e tenere sotto controllo le spaventose sensazioni a esso correlate, la persona cerca di non pensare a quanto capitato. Ma così facendo, sperimenta la situazione paradossale per cui più cerca di dimenticare più finisce per ricordare. Con le parole di Michel de Montaigne: “Niente fissa una cosa così intensamente nella memoria come il desiderio di dimenticarla”.
La maggior parte di coloro che soffrono di PTSD comincia anche a evitare tutte le situazioni collegate all’evento traumatico, nel tentativo di scacciare dalla propria memoria ogni traccia. L’effetto di ogni evitamento è, però, quello di portare a una vera e propria catena di progressivi evitamenti, fino a quando anche situazioni o luoghi un tempo neutri vengono gradatamente vissuti come pericolosi. L’effetto finale non è solo quello di incrementare la paura che la persona vorrebbe invece ridurre, ma anche quello di renderla sempre più sfiduciata rispetto alle proprie risorse e sempre più limitata nella propria vita (Carmassi et al., 2014).
La persona traumatizzata ricorre spesso all’aiuto degli altri, aiuto che può variare dalla richiesta di farsi accompagnare nei luoghi ritenuti pericolosi, a quella di farsi continuamente rassicurare, confortare o semplicemente ascoltare. Questa strategia, che all’inizio risulta sempre efficace, conduce invece al progressivo peggioramento della situazione di incapacità della persona che, delegando agli altri la gestione degli effetti del trauma, finisce per creare una vera e propria dipendenza e ridurre ancora di più la propria autonomia (Darves‐Bornoz et al., 2008).
Le terapie a orientamento narrativo sono approcci terapeutici particolarmente indicati per il trattamento degli eventi traumatici (Bichescu et al., 2007). Consistono nell’aiutare le persone a dare un nuovo significato alle loro esperienze traumatiche tramite una rilettura dell’episodio e a ricostruire una visione più positiva di sé stesse.
Gli interventi si basano sulla creazione di un contesto terapeutico sicuro e di fiducia. Il terapeuta crea un ambiente accogliente, libero da giudizi, in cui la persona si sente a suo agio nel condividere la sua storia e le emozioni legate al trauma. Questa atmosfera di fiducia e rispetto è essenziale per facilitare il processo di guarigione e permettere alla persona di esplorare i traumi in modo sicuro (Ehlers & Clark, 2000).
I primi colloqui con un paziente che ha vissuto un trauma sono di fondamentale importanza affinché la terapia si evolva in maniera positiva. Chi ha sofferto un trauma vive una situazione di emergenza e un disperato bisogno di aiuto ma, al tempo stesso, è incapace di attuare da solo anche il minimo cambiamento.
Il terapeuta deve quindi saper comunicare alla persona traumatizzata una forte compartecipazione emotiva, lavorando quindi sul piano empatico e, parallelamente, sul fatto di essere un tecnico specializzato che possiede tutti gli strumenti necessari per aiutarlo. Le abilità comunicative e relazionali del terapeuta, soprattutto nel corso delle prime sedute, sono fondamentali per far sì che il paziente decida di fidarsi e di affidarsi, costruendo un’alleanza terapeutica, e sia quindi disponibile a seguire quella che è un’indicazione principe per il trattamento di questo tipo di disturbo: “il romanzo del trauma”, ossia la costruzione di una narrazione del trauma (Cagnoni e Milanese, 2009).
Questa tecnica terapeutica consiste nel chiedere al paziente di mettere per iscritto ogni giorno, in una sorta di racconto dettagliato, tutti i ricordi del trauma passato: immagini, percezioni, rappresentazioni, sensazioni somatiche, emozioni, pensieri. In quei giorni dovrà ripercorrere i momenti vissuti, fino a quando non sentirà di avere scritto tutto ciò che è necessario comunicare. Al termine di questo esercizio, dovrà mettere il tutto in una busta, evitando di rileggere, e consegnare gli scritti al terapeuta durante la seduta successiva. Parallelamente, si prescrive alla persona di smettere di parlare del trauma e di quanto questo stia ancora influenzando la sua vita (“tecnica della congiura del silenzio”), veicolando tutta la pressione del malessere dentro gli scritti (Fish et al., 1982).
Il romanzo del trauma è una manovra molto efficace, poiché interviene in maniera diretta sulla principale coping reaction che mantiene il disturbo, ovvero il tentativo di dimenticare, di rimuovere. Le strategie di coping, infatti, sono a volte disfunzionali. Mediante questo homework si producono quattro effetti:
I pazienti che accettano di mettere in atto questa prescrizione, generalmente già nel corso degli incontri iniziali raccontano come i primi giorni di esecuzione del compito siano stati davvero difficili e dolorosi ma, a poco a poco, il racconto sia diventato sempre più freddo e i ricordi, i flashback e gli incubi prima quotidianamente presenti siano diminuiti rapidamente fino a scomparire. Anche il fatto di smettere di parlarne aiuta questo processo di elaborazione, permettendo parallelamente di liberare dal peso del passato le relazioni con gli altri. Il passato, ricollocato al suo posto, smette così di invadere continuamente il presente della persona e di limitare la costruzione del suo futuro (Meringolo & Chiodini, 2016).
Tramite la terapia narrativa, la ferita traumatica si trasforma a poco a poco in una cicatrice che, pur non scomparendo del tutto, permette alla persona di riappropriarsi della propria naturale capacità di resilienza. Ed ecco che, nel corso dei colloqui successivi, la persona inizia a recuperare la propria vita, interrompendo la sequenza di evitamenti e ritrovando gradualmente la fiducia nelle proprie risorse e nella propria autonomia.
La persona è anche aiutata a riconciliarsi con se stessa e con gli altri, a riprogettare la propria vita e a modificare la propria prospettiva temporale per superare il passato traumatico e aprire la strada al meglio che deve ancora arrivare: il momento presente e il futuro.
Psicologo Psicoterapeuta a Monza
Iscritto all'Ordine degli Psicologi della Regione Calabria N. 2049
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